Famiglia

L’Avana, il Buena fuga cuban club.

Tra gli habaneros delle ramblas e i macho del Malecon, viaggio nell' isola da cui si fugge anche sfidando il freddo nel vano carrello di un jet. Con i giovani che corteggiano le straniere, a caccia n

di Cristina Giudici

I più coraggiosi la chiamano la sindrome di Miami. I più timorosi, quelli che passano le notti appiccicati al muro del Malecon, il lungo mare dell?Avana, in cerca di turiste straniere e di un biglietto di sola andata, lo chiamano semplicemente il complesso dell?isolano. Ma per gli 11 milioni di cubani che vivono ancorati tra nostalgia del futuro e l?amore per la propria terra, il sogno di lasciare Cuba è come un?ombra sempre presente. Oppure, a volte un incubo.
Come per Roberto Garcia che il 10 settembre ha lasciato la sua città nativa, Santiago de Cuba, nascosto nel fondo del carrello di un aereo ed è morto a novemila metri d?altezza, a causa del freddo e della mancanza di ossigeno. Il suo volo verso la speranza ha percorso le rotte del Caraibi, ha raggiunto la ex Jugoslavia con un carico di aiuti alimentari e poi è atterrato a Malpensa. Con il corpo di Roberto Garcia, rannicchiato e attaccato a una corda che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto salvarlo durante gli atterraggi. Oggi Cuba non è più quella del 1994, quando migliaia di balseros costruivano e nascondevano nelle proprie case zattere di legno aspettando il momento buono per attraversare le 90 miglia di oceano infestato dai pescecani che li divideva dalle coste della Florida. Oggi è più difficile cogliere la disperazione dei giovani perché l?arrivo del turismo di massa e dal capitalismo di stato hanno portato un po? di dollari all?economia.

Voglia di libertà
Ma i cubani di fine millennio continuano a sognare di andarsene. Basta camminare per la capitale, sdraiata sulla baia e affacciata sul Golfo del Messico, per capire i pensieri dei suoi due milioni di abitanti, soprattutto fra i giovani. Basta vederli seduti sui gradini di case che hanno sciolto i colori, sbriciolato l?intonaco e sgretolato pietre e mattoni, per sentirli ridere sguaiati o urlare ai turisti che passano e sapere che qui, in questa città che evoca ancora i favolosi anni ?50, la storia si è fermata. Gli habaneros, che ciondolano allegramente per le ramblas del Pardo che conduce giù al mare, passeggiano sotto lampioni rotti sui viali coloniali, sono affamati di qualsiasi racconto che dica loro come va il mondo, fuori dall?isola. Come Ariel che ha 28 anni e non è mai andato via. Di giorno dà lezioni di salsa e di notte frequenta le discoteche brulicanti di turisti, soprattutto italiani e spagnoli. «Amo il mio Paese», dice. «La musica, l?allegria, l?amore della mia gente, ma non ho ciò che a voi europei invece avanza: la libertà». Ariel stava per andarsene l?anno scorso. Grazie a una ?novia?, una fidanzata italiana che gli aveva promesso una ?carta de invitacion?, un invito ufficiale, e il biglietto aereo per stare tre mesi a Roma. E invece lo ha ingannato, inviandogli un biglietto falso che ha spezzato le sue illusioni. Così, ogni notte ci riprova, aspettando l?alba seduto sul muro del Malecon, in compagnia di qualche straniera in cerca di emozioni esotiche. Ariel, come la maggior parte dei giovani dell?Avana, parla italiano con le inflessioni dialettali dei turisti arrivati qui e non ha rinunciato alla libertà.. Vuole avere la libertà di andarsene, di tornare e perché no, magari anche di rimanere.

Fuggire grazie alla lotteria
Dopo l?accordo migratorio con gli Stati Uniti, il governo cubano ha dato accesso ai cittadini di accedere alla lotteria statunitense: in gioco ci sono 20 mila visti all?anno. Ma le richieste sono di mezzo milione e poi c?è la burocrazia che stritola ogni vana illusione: per ottenere il bombo cubano, (la lotteria), su cui sono state scritte migliaia di barzellette e leggende metropolitane, si deve aspettare mesi, a volte anni e magari per poi avere una risposta negativa. Come è successo alla dottoressa Cardoso, del ministero della Sanità, che dopo aver aspettato due anni per lasciare legalmente il Paese, le è stato comunicato che la nuova legge per i medici era cambiata e doveva aspettare altri tre anni e poi fare una nuova richiesta. La dottoressa Cardoso era una donna dell?oriente dell?isola, dove in ogni casa c?è il ritratto di ciò che di più bello ha lasciato la rivoluzione del 1959: il ricordo di Ernesto Che Guevara. E dove gli abitanti sono esasperati e passionali. Così non ci ha pensato due volte e si è uccisa. Il suicidio le è sembrata la sua miglior protesta. Ecco perché le cubane, belle ma povere, cercano il proprio biglietto di andata (e ritorno) negli occhi degli stranieri. Quest?anno il governo cubano ha già celebrato duemila matrimoni misti con gli italiani. E sono sempre più numerose le ragazze che scendono dal ?cerro?, il colle della città dove sorge uno dei quartieri marginali, per andare sul Malecon o al muro della libertà, unico luogo di incontri promiscui più o meno tollerato. Oppure raggiungono la spiaggia di Varadero, a 150 chilometri dall?Avana, che i cubani definiscono un pezzo di Italia e di Spagna, dove la formula turistica ?ron, cigari e Che Guevara? si consuma sotto gli ombrelloni di paglia o nelle fantastiche acque azzurre del mare dei Caraibi, in compagnia di splendide e giovanissime mulatte. É qui che, sulla base dell?incomprensione e sulla mancanza di un linguaggio comune, nascono amori che danno diritto ai giovani del posto di sognare di abbandonare una vita fatta di medicine gratis, ma di troppi stenti. Grazie alla ?carta de invitacion?, un invito ufficiale rivolto al governo attraverso cui qualsiasi straniero (eccetto gli americani) può chiedere l?autorizzazione all?espatrio per un cittadino cubano, a patto però che si assuma la responsabilità del suo ospite, soprattutto per quanto riguarda il ritorno.

La dissidenza: fuga per sempre
Oppure rimane la scelta drastica della ?salida definitiva?, lasciare la propria terra per sempre, proclamandosi dissidente. Così all?Avana vecchia, con le sue case coloniali colorate, le vecchie cadillac e le note del son che suonano per tutti come in piazza della rivoluzione, dove il ritratto consumato del Che Guevara si affaccia sullo splendido quartiere de Vedado, i discorsi sono tutti simili. Tutti parlano di «quien tu sabe», chi tu sai, ( Fidel Castro) per lamentarsi della situazione economica, della burocrazia, della mancanza di libertà, della possibilità di uscire dall?afosa e soffocata atmosfera che sembra aver bloccato tutti in un eterno movimento. E così i cubani che si proclamano fieri anti imperialisti e urlano di gioia quando vincono una partita a baseball contro gli Stati Uniti e ripetono in coro il «Noi non vogliano padroni», sono gli stessi che guardano il mare e sognano Miami, Roma o Barcellona. Insomma, se i vecchi sono felici di invecchiare qui, coccolati dal ritratto del Che e dalle attenzioni dello Stato, i giovani non ce la fanno più. Vogliono vedere il mondo che qui è entrato solo attraverso le tasche piene dei turisti stranieri. E perciò si inventano ogni tipo di attività culturale, musicale e teatrale per sperare di raggiungere l?Europa: il rock, la salsa, il teatro d?avanguardia. Tutti, tranne i dissidenti che soffrono la sindrome di Miami, ma hanno deciso di morire qui. Come Raul Rivera, poeta ed ex giornalista del regime che era stufo, come dice lui, «di suonare la chitarra a Fidel» e ha fondato una sua agenzia di stampa, indipendente e illegale «Da quattro anni ci diamo da fare per raccontare la vita reale del cubano, eppure i giovani che si avvicinano a noi lo fanno perché pensano che attraverso Cuba press la Florida sia più vicina. Io lo dico sempre che noi siamo un?agenzia di stampa e non di viaggi, ma non me la sento di giudicarli. Anche a me succede, ogni tanto, di svegliarmi depresso, afflitto dalla sindrome di Miami». Da quando Raul è tornato da Mosca, dove era corrispondente dell?agenzia Prensa Latina, non è mai più andato via. E continua a vivere nel centro dell?Habana, dove ogni giorno un casa crolla, o meglio si dissolve, stremata dalla rovina del tempo e conclude dicendo:«Hanno chiuso il mare, i viaggi clandestini e le zattere non ci sono quasi più e quindi la gente povera ha cominciato a scrutare il cielo. E non perché non ci piaccia la nostra terra, ma vivere in gabbia fa perdere il senso dell?orientamento, della realtà e soprattutto della storia».

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.